Ospite dell’ ultima conviviale è stata la professoressa Donatella Mossello Rizzo, madre dei nostri soci Titta e Valentina, già insegnante di disegno al liceo scientifico, storica dell’arte, fondatrice e anima del Fai in Valsesia. Con la grazia e la competenza che le sono proprie, la relatrice ha saputo tratteggiare l’arte ed il carattere della Gentileschi.
Artemisia, nata nel 1593 a Roma era figlia del pittore caravaggesco Orazio Gentileschi. La sua straordinaria vicenda artistica fu profondamente legata a una drammatica storia personale: a 12 anni rimase orfana di madre e, pur dovendo accudire i fratelli più piccoli, rimase affascinata dal lavoro del padre che ebbe il merito di intuirne il talento. Ma per affermarsi dovette combattere i pregiudizi della società del tempo in quanto l’arte era di competenza quasi esclusivamente maschile. Il suo confinamento nella casa paterna le impedì di andare a bottega ma non la salvò dalle attenzioni di Agostino Tassi, che, con la fiducia del padre e con il compito di insegnarle la prospettiva, poteva frequentare la casa. Le sue attenzioni però andarono oltre l’insegnamento e con la forza arrivò ad abusarne.
Lei accettò l’umiliazione di un pubblico processo e il supplizio della tortura quale “prova di Dio” pur di veder condannato chi l’aveva stuprata, rimase ferma nella sua posizione e Il Tassi fu giudicato colpevole. Ebbe una giustizia formale ma non una vera vittoria. La vita e la sua pittura furono condizionate da questa esperienza tanto che il soggetto ricorrente della sua pittura è sempre stato quello di eroine bibliche, Giuditta, Betsabea, che lottano e vincono contro un nemico forte, ma soprattutto uomo. Il suo capolavoro è considerato ‘Giuditta ed Oloferne’, un soggetto proposto anche da Caravaggio ma con minor impatto emotivo.
Lei, che aveva osato affrontare la cultura maschilista del tempo, dovette lasciare Roma per Firenze, dove si sposò con un modesto pittore, Antonio Stiattesi. Accettò questa condizione ‘per i vantaggi che un marito può offrire a chi sia sola. Il soggiorno fiorentino le permise di recuperare una onorabilità che era stata compromessa. Si spostò a Roma, a Napoli e a Londra. Mori a sessant’anni, dopo una vita non facile in cui le mancarono le grandi commesse religiose che le avrebbero assicurato fama e compensi adeguati. Fu un talento puro, ebbe consapevolezza dei propri mezzi e tenacia nel far condannare l’uomo che la violentò in una società maschilista.
Dobbiamo la sua riscoperta a Roberto Longhi che, nei primi del Novecento, pubblicò uno studio dedicato ai Gentileschi, padre e figlia. Il grande studioso fu il primo a valutare Artemisia Gentileschi come artista, portando in primo piano il ruolo che svolse nella prima metà del XVII secolo nell’ambito dei pittori caravaggisti. Il suo giudizio è netto e inequivocabile: “L’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura e colore e impasto”